Iniziamo da una domanda: da dove viene il dolore? La risposta può sembrare ovvia: se subisco una contusione, una distorsione, una scottatura, la zona danneggiata fa male. Il meccanismo è un po’ più complesso: i recettori presenti nei tessuti traumatizzati trasmettono i loro segnali al cervello, il quale li interpreta e genera l’esperienza del dolore. Qualora la trasmissione dei segnali fosse interrotta, per cause patologiche o per mancanza dei nervi conduttori, è possibile subire una ferita senza provare alcuna sensazione. È quello che avviene, per esempio, in certe patologie neurologiche o quando una persona prova dolore ad un arto che non c’è più perché le è stato amputato.
In situazioni più comuni si verifica spesso la mancanza di corrispondenza tra la sensazione dolorosa e il reale danno ai tessuti, come per esempio nella cefalea o in piccole ferite della pelle, che provocano un dolore intenso a fronte di un danno minimo. Avviene anche in alcune forme di dolore cronico: quando si cercano le ragioni del mal di schiena o di disturbi simili attraverso indagini diagnostiche, spesso non si riesce ad individuare una danno che possa giustificare il dolore. Altre volte nelle immagini di radiografie, TAC e risonanze magnetiche si riscontrano alterazioni che non corrispondono ad alcuna esperienza dolorosa. Le persone che soffrono di fibromialgia hanno frequenti dolori senza alcun danno ai tessuti.
In passato, il dolore del quale non si riusciva a riscontrare una causa anatomica veniva definito immaginario, o psicosomatico, generato dalla psiche, dalla mente. Le osservazioni cliniche e i recenti studi scientifici hanno permesso di comprendere meglio la complessità dell’esperienza del dolore, nella quale entrano in gioco sensazioni, emozioni e aspetti cognitivi. Il mal di schiena cronico, per esempio, non è più considerato semplicemente una patologia vertebrale ma viene classificato come una sindrome bio-psico-sociale.
Come scrivono Mari Hodges e Tim Cacciatore in un recente articolo (1):
La ricerca degli ultimi decenni ha rivelato fattori precedentemente non riconosciuti oltre al danno tissutale che influenzano il dolore. È ormai chiaro che il dolore non è una conseguenza inequivocabile del danno tissutale, ma è multifattoriale e multidimensionale. Fattori biologici, psicologici e sociali interagiscono con l’esperienza vissuta per creare un’esperienza di dolore unica per ogni individuo e ogni incidente. Sebbene le informazioni provenienti dal corpo siano ovviamente importanti, il cervello utilizza tutte le informazioni che ha a disposizione per determinare se la persona o una parte del corpo è in pericolo e necessita di protezione. Il dolore promuove una varietà di comportamenti protettivi per affrontare le minacce all’integrità corporea e aumentare le possibilità di sopravvivenza. (…) Prove schiaccianti di cambiamenti del sistema nervoso e di influenze psicosociali sul dolore, nonché una riconcettualizzazione del dolore come protettivo piuttosto che indicativo del danno, hanno portato a un cambiamento nella comprensione del dolore. Questa nuova comprensione ha portato a nuove strategie di trattamento per affrontare il dolore e la disabilità correlata. Questi nuovi interventi per il dolore sembrano più allineati con la Tecnica Alexander rispetto ai precedenti approcci biomedici e stanno mostrando risultati positivi.
La maggior parte delle persone che si rivolgono ad un insegnante di Tecnica Alexander lo fa per motivi terapeutici, perché ha dolore. Ma quale ruolo può avere la Tecnica Alexander nella riduzione del dolore? Stiamo parlando di un metodo educativo che interviene sulla postura e sulla consapevolezza motoria. L’obiettivo del lavoro non è la riduzione del dolore in sé, ma nella maggior parte dei casi questo effetto accompagna i cambiamenti che avvengono nel comportamento dei soggetti.
Diversi fattori possono contribuire a rendere la Tecnica Alexander efficace nella riduzione del dolore. Tra questi vi è probabilmente il ruolo dell’insegnante, una persona che si prende cura di un’altra persona, cerca di comprenderne gli atteggiamenti, le abitudini, e l’aiuta a compiere quei piccoli passi che è difficile fare da soli per iniziare a cambiare qualcosa. Nella Tecnica Alexander non si rischia il fallimento rispetto a un obiettivo prestabilito, poiché l’obiettivo è innescare un processo che produca risultati da sé, nel breve e lungo periodo.
Il processo di cambiamento coinvolge la rappresentazione interna del proprio corpo, lo schema motorio, una specie di mappa mentale sulla base della quale il nostro cervello predispone le azioni da compiere e utilizza il dolore per proteggersi da potenziali danni. Sembra che la Tecnica Alexander aiuti il cervello a rivedere i suoi parametri, e la posizione o movimento che prima erano considerati una minaccia, tale da giustificare il dolore, nelle condizioni mutate potrebbero non esserlo più.
Il contatto manuale è un altro fattore rilevante. Non si tratta, ovviamente, di un’azione diretta sulla parte dolente del corpo, ma di un’azione molto più sofisticata, paragonabile ad una forma di dialogo. L’insegnante, attraverso le mani, percepisce elementi riguardanti il tono muscolare, la respirazione, la preparazione al movimento, e trasmette suggerimenti provenienti dalla propria organizzazione neuromuscolare, molto diversi da qualsiasi forma di massaggio o di manipolazione. Per esempio, con le mani sul collo e sulla schiena potrebbe suggerire l’allungamento della colonna vertebrale o un comportamento più elastico della muscolatura che la sostiene.
Il soggetto viene gradualmente aiutato a prestare attenzione a ciò che avviene nel suo corpo, e viene incoraggiato a formulare intenzioni coscienti che possono favorire i cambiamenti in corso. Si trova cioè coinvolto attivamente, consapevolmente, in un processo del quale può gradualmente divenire artefice. Questo contribuisce ad aumentare la fiducia in se stessi, a ridurre la paura del dolore e ad aumentare il senso di autoefficacia, cioè la capacità di impegnarsi in attività nonostante il dolore.
Con l’apprendimento di nuove strategie posturali e motorie si riduce il carico muscolare ed articolare, le sollecitazioni sui tessuti, lo sforzo nel sostenere e muovere il proprio corpo. Questi cambiamenti possono contribuire alla riduzione del dolore grazie alle informazioni provenienti dai tessuti periferici e dirette al cervello. Questo potrebbe essere il modo più semplice per giustificare l’efficacia della Tecnica Alexander sul dolore, ma non possiamo tralasciare il modo in cui questi cambiamenti vengono ottenuti, che possono di per sé avere un ruolo rilevante.
L’insegnante che si prende cura del soggetto con dolore, la comprensione senza giudizio, il tocco, la guida manuale, i cambiamenti nella postura e nel movimento, quelli nella rappresentazione interna, il coinvolgimento della persona, una maggiore consapevolezza, la padronanza di sé, l’autoefficacia, sono tutti elementi che contribuiscono a spiegare l’effetto della Tecnica Alexander nella riduzione del dolore, fermo restando la necessità di approfondire tali elementi con ulteriori studi scientifici.
Puoi approfondire questo argomento nell’articolo di Mari Hodges e Tim Cacciatore, citato qui sotto.
(1) Modern Pain Science and Alexander Technique: How Might Alexander Technique Reduce Pain?
By Mari Hodges and Tim Cacciatore
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